I giardini dell'antica Roma
Parlare dei giardini di Roma antica non è semplice, sia perché si va ad abbracciare un periodo plurisecolare sia perché, naturalmente, non ne sono rimaste grosse tracce.
Quello che noi sappiamo lo apprendiamo dai pochi dipinti murali pervenutici, da alcuni testi e, negli ultimi decenni, dagli studi degli paleobotanici: questi, archeologi delle piante, studiando i resti di pollini, semi e radici in qualche modo rimasti riescono a ricostruire con ottima approssimazione le piante presenti in un determinato sito secoli addietro.
Durante i secoli della Repubblica, prima che Roma conquistasse la Grecia, gli horti nelle case erano… orti, appunto, coltivati ad ortaggi e piante necessarie al sostentamento. Solo dopo l’incontro con la cultura greca diventarono ricchi e suntuosi giardini , decorati da fontane, statue e padiglioni, dove si poteva passeggiare, discorrere e ricevere gli ospiti di riguardo. Noti erano gli horti di Sallustio, di Cesare e di Lucullo nel I secolo a. C. e all’incirca la struttura di base era similare: lunghi viali rettilinei bordati da basse siepe odorose di rosmarino e mirto, cosicché lo sguardo potesse spaziare sul panorama circostante. Agli incroci dei viali erano collocate erme, panchine, statue o padiglioni.
Nelle case romane l’atrio porticato centrale, su cui si affacciavano la maggior parte delle stanze, era il peristilium: questo spazio era un piccolo giardino interno (viridarium) con fontane, aiuole regolari, piante e fiori decorativi. Se le dimensioni erano ridotte, per dare un maggiore senso di spazio sui muri in penombra del peristilium venivano raffigurati giardini o paesaggi naturali, così da costituire una sorta di prolungamento visivo del viridarium. Se invece lo spazio era molto più ampio le fontane alimentavano piccoli canali che attraversavano il giardino, giochi d’acqua o peschiere, magari all’ombra di pergolati: come si vede gli elementi base dei nostri giardini di campagna ci sono già tutti.
Ugualmente le piante presenti allora erano le stesse che allietano le nostre città: si piantavano gli arbores silvestres (quelli a crescita spontanea nei boschi) cioè l’abete, il faggio, il castagno, il pino silvestre, il leccio, il pioppo, la quercia oppure gli arbores urbanae come il platano, l’olmo, il pino fruttifero, la palma, l’olivo, il tiglio e il cipresso, ritenuti più adatti per essere piantati anche in città e godere dei loro frutti o della loro ombra.
Gli alberi da frutto invece non entravano a fare parte delle essenze presenze nei giardini, forse perché più legati ad una concezione utilitaria: venivano piantati in una parte del terreno a loro riservata e chiamata pomerium.
Discorso simile nelle basi, ma diverso nella realizzazione, è quello delle ville imperiali, principalmente per l’estensione, che non avrebbe fatto invidia ai più tardi giardini di Versailles. Gli horti di Mecenate a Roma si estendevano tra Quirinale, Esquilino, Pincio ed il colle Oppio, mentre la Domus Aurea di Nerone era un complesso che abbracciava circa ottanta ettari, comprensiva di boschi, un laghetto e campi coltivati.
Le grandi dimensioni e naturalmente la completa assenza di problemi economici permettevano agli imperatori di sbizzarrirsi in ogni tipo di fantasia edificatoria. Abbastanza noto che Adriano, nel costruire la sua villa a Tivoli, volle riprodurre, certo non fedelmente, i luoghi che più lo avevano affascinato nei suoi viaggi lungo l’impero. Invece di un grande palazzo unitario circondato da giardini, come potrebbe essere la reggia di Caserta, la villa diventa un insieme di ambienti di rappresentanza, di servizio, di svago, collegati tra loro ed immersi in un parco ricco di colonnati, vasche, piscine, canali, fontane e prati, dove l’ambiente costruito non sovrasta quello naturale ma si compenetrano perfettamente.