L'India di Paola (parte prima)
Un racconto bellissimo. Da leggere tutto d'un fiato (una parte alla volta...sono quattro...). E' l'esperienza di Paola Russo, che ha vissuto tre mesi in India per lavoro. Vi affascinerà. Garantito!
India
Mi siedo sul sedile posteriore del taxi, una grande Ambassador nera; è la seconda volta che salgo su una di queste macchine enormi, tozze e solide, che mi piacciono tanto. La prima è stata a Jaipur, ma era mattina, l’auto era bianca e l’autista ottuso e disonesto: gli avevo urlato in inglese che la smettesse di girare a vuoto, che se non sapeva l’indirizzo del nostro albergo sarebbe stato meglio dirlo, non farci perdere altro tempo. Poi G. aveva improvvisamente visto l’insegna dell’albergo, risolvendo la questione. L’autista mi aveva guardata di sottecchi, stupito e serio. Ero scesa dall’Ambassador bianca sbattendo la porta. Faceva un caldo spaventoso, la luce della città rosa era accecante, ed io avevo voglia di tornare a Delhi, a casa. Alla mia stanza con i tappeti di bambù sul pavimento, il ventilatore perennemente acceso e la grande finestra. Ora ci sto tornando davvero, a casa, questo taxi mi sta portando all’aeroporto Indira Gandhi, mi aspetta un aereo per ritornare in Europa, alla mia vita. E’ buio, l’autista corre come un dannato ma ha un’aria tranquilla, io fisso la pigna d’uva di plastica fosforescente (dove l’avrà comprata?) che pende malinconica dallo specchietto retrovisore. Guardo la fila interminabile di negozi e alberghi che fiancheggia il lungo stradone che porta all’aeroporto, i camion colorati con la scritta “Horn Please”, le macchine veloci dei ricchi, l’hotel Radisson, brutto e imponente, dove sono stata la domenica prima, con il capo e i suoi amici dell’ambasciata italiana. Siamo andati a giocare a bowling dopo il pranzo all’Hyatt Regency, e io sono stata la disperazione del maestro, soprattutto quando dopo aver giocato malissimo per due partite consecutive ho fatto uno strike. Anche il generale ci è rimasto male, e ha fatto la stessa faccia di quando avevo proclamato il mio innamoramento improvviso per Old Delhi. Non capiva, per lui Old Delhi è brutta, sporca, caotica. Io ci sono stata un sabato mattina, da sola. Sono entrata al Forte Rosso, pagando i soliti dieci dollari. Mi sono sottratta ai mendicanti, alle guide improvvisate, ai portatori di risciò, ai venditori di tutto. A Lal Qila[1] il colore predominante è il rosso magnifico e struggente dell’arenaria, di quella che gli inglesi chiamano “sandstone”, pietra di sabbia, così dura, imponente, e insieme fragile, come se si dovesse sbriciolare da un momento all’altro. Forse tutto qui si sta sbriciolando, eppure tutto rimane fermo, da secoli, resistendo a questo sole opaco, a questo caldo infernale, alle tempeste improvvise che portano la sabbia dal deserto del Rajasthan, alle ore interminabili di pioggia durante il monsone. A Pratima piace la pioggia, e mi prende in giro perché amo il sole e la pioggia mi mette tristezza. Mi dice che è perché non sono indiana, che la pioggia mi fa tristezza. Pratima è sempre allegra, e dolce. Nello stanzino vicino alla sua camera da letto ha un piccolo tempietto in argento, ed io mi sono incantata a guardarlo, era bellissimo. Ho desiderato avere la stessa fede senza nuvole, semplice e dolce. Eppure non ho sentito quel tipo di fede nei templi indù in cui sono entrata, era tutto troppo levigato, le statue sorridevano ottuse e beffarde, le preghiere mi sono sembrate frettolose, la ritualità pagana, e terribilmente pragmatica. Al Birla Mandir[2] di Delhi, inaugurato dal Mahatma Gandhi nel 1938, un uomo mi ha fatto avvicinare all’altare di Shiva, il distruttore, mi ha messo sulla fronte il bindi di sabbia colorata, e mi ha guardato condiscendente. Non so perché, ma ho provato un senso di vergogna.
Esco dal Forte Rosso, il ragazzo svelto e vivace che sa parlare qualche parola d’italiano e che mi ha pazientemente aspettata mi carica quasi a forza sul suo risciò. Mi dispiace per lui, so di pesare, e lui corre, non so come faccia, gli chiedo se è faticoso, lui mi dice ridendo di no, che il suo è un bel mestiere. Si chiama Mr Badri, è giovane e bello. Imperiosamente guida il risciò per Chandni Chowk[3], mi spiega le cose. Io sono abbagliata dalla bellezza e dal caos di questa strada. Non c’è un centimetro libero, persone, vacche, risciò, negozietti, templi, bancarelle di frutta, un odore spaventoso. Sono a Delhi da tre settimane, ed ora per la prima volta mi sento a casa. Mr. Badri prende a salire per un dedalo di viuzze strettissime, ci troviamo in un ingorgo irrisolvibile. Un signore seduto su un altro risciò mi grida “Don’t worry, madam, that’s India…” Io sono solo preoccupata perché Mr. Badri ha una strana tendenza a prevaricare, proprio non vuole andare indietro, e temo possa arrivare alla rissa. In realtà mi sto divertendo, questo posto mi piace, ne sento l’anima. Il generale a questo punto scoppierebbe a ridere, e direbbe – la ragazza è senza speranza, ha preso il mal d’India- Forse l’ho preso davvero, il mal d’India, anche se non è stato un colpo di fulmine come pensavo, all’inizio ho desiderato scappare, andare lontanissimo da questo posto, da questa città di cui non ho visto il confine. Sono arrivata a New Delhi una notte di fine marzo, e quando dall’aereo ho visto le luci della città ho avuto paura. La stessa strada che sto percorrendo ora a ritroso, fra l’aeroporto e casa, al quartiere residenziale di Jor Bagh, mi è sembrata di una tristezza indicibile, un lungo percorso verso il niente. Ho avuto l’impressione di essermi persa. Mi sono aggrappata alla mia borsa, per sentire qualcosa di reale.
Nei primi giorni le strade di New Delhi mi sembravano tutte uguali, così larghe, regolari e alberate, e mi sono persa tante volte. Ma per una strana ragione riuscivo sempre ad arrivare a casa, senza dover chiedere a nessuno. Del resto, a Delhi non è facile che qualcuno ti dia l’indicazione giusta, anche quando non sanno di cosa tu stia parlando ti dicono comunque di andare a destra o a sinistra, per non essere scortesi. Keenu mi ha insegnato una scorciatoia per arrivare più presto in ufficio. E’ una strada bella, piena di alberi, e durante il mese di maggio ho camminato su un tappeto di fiori gialli, fra gli sguardi dei custodi armati delle ville e i saluti dei bambini. Passavo ogni mattina davanti ad un lebbrosario, e davanti a casa di Cecilia Dugger e Barry Bearak. Me li sono sempre immaginati alti e con i capelli rossi, Barry e Cecilia, ma non li ho mai visti. In compenso ho visto la loro macchina ingombrante, con la scritta “Press”, ed il loro autista paziente. Mi è bastato. Allo stesso angolo c’è il risciò del mio tassista preferito, quello che ogni giorno, da quando ha capito che esco dall’ufficio di Prithviraj Road sempre alla stessa ora per andare a mangiare qualcosa a Khan Market[4], mi aspetta, mi porta al bar, rimane lì e mi riporta in ufficio, dicendomi che non dovrei mangiare così velocemente, che lui ha tempo. Non l’ho salutato, il giorno che sono partita, ma forse è meglio così. Significa non partire per sempre. Non ho salutato neanche la giovane e simpatica cameriera del Barista, quella che si ricorda il mio nome, lo dice all’inglese, Paula, e sa qual è il mio tramezzino preferito. Khan Market è allegro, pieno di odori, negozi e ristoranti. Amo andarci da sola, entro nelle librerie, mi siedo in un caffè, guardo le vetrine, mi fermo davanti ai venditori di litchi, strani frutti di origine cinese. Ci sono venuta anche con Irena, alta, bionda e frettolosa, impegnata a dare ordini all’autista del marito, il mio capo, e a cercare di trovare piacevole l’India. E’ appena arrivata a Delhi, dopo aver seguito suo marito in Cina. Hanno vissuto a Canton per tre anni, e lui dice che Irena ha persino imparato a parlare cinese. Irena ora non vuole imparare l’hindi, compra centinaia di vestiti per dimenticare, ha problemi con i servitori indolenti, con il filtro della piscina e con l’aria condizionata che non funziona. Ma una sera che sono stata male mi ha tenuto la fronte con dolcezza mentre vomitavo, e quando nel salutarla le ho detto che era stata un’amica per me, si è quasi commossa e mi ha risposto-Anche tu- Suo marito ci guardava da dietro la scrivania, e ha sorriso. Forse sa che lei non è felice. Ma è possibile essere felici, in India?
A Khan Market ci sono stata anche con madam, la mia padrona di casa, lei è ancora più frettolosa di Irena, mi piace soprattutto l’aria di disgusto che ha sulla faccia quando chiede il prezzo di qualunque cosa, e poi non le va di comprare. E’ come se ogni volta che decide di comprare qualcosa facesse un enorme favore al venditore. Ma lei è così, forte e dura, tratta male le cameriere, chiama stupido il ragazzetto che le fa i servizi, ti dice cosa devi fare e quando farlo, eppure quando sorride sai che ti vuole bene, e che forse le mancherai. Quando ci siamo salutate, dopo cena, è venuta in camera a controllare la mia valigia, che non fosse troppo pesante, io le ho detto che non volevo piangere e che quindi stavo scappando, e lei mi ha abbracciata. Mi ha chiesto se volevo altro gelato di mango, sa che mi piace, e se avevo dormito un poco. Non ho dormito. Sto lasciando l’India, non posso dormire.
About Paola:
Napoletana, quarantenne per sbaglio, eterna ragazza per vocazione. Ha studiato Scienze Politiche e sognato una carriera internazionale, ha fatto tante esperienze di lavoro, anche all’estero, approfittandone per vedere un po’ il mondo. E’ progettista di interventi formativi e di azioni sociali, precaria come molti, in questa epoca incerta. Ama un sacco di cose, ed è curiosa come un gatto (animale prediletto, del resto!). La musica, la lettura, la scrittura, il web e le sue innumerevoli possibilità di comunicazione. Le persone, e le loro infinite storie. Il suo compagno. Il suo nipotino nuovo di zecca, bellissimo e riccioluto come lei (grazie sorella!). Viaggia in macchina, preferibilmente. Non ha la passione dell’aereo, ma ogni volta, superato il suo bel panico da decollo, prova un’ebbrezza di gioia, e di libertà. Il racconto sull’India è frutto di un ricordo ormai antico, dell’anno 2001, quando ha vissuto a New Delhi per tre caldissimi mesi, condotta lì da una borsa di studio dell’Istituto per il Commercio Estero. Ci ritornerà, un giorno, e sarà come tornare a casa…
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