L'India di Paola (parte seconda)

Ecco la seconda parte dell'esperienza indiana di Paola Russo. Se vi siete persi la prima, eccola qui. Buona lettura!

Agra

Lo Shatabdi Express per Agra parte dalla stazione di New Delhi alle sei del mattino. G. ed io arriviamo in taxi, non siamo riusciti a trovare un autorisciò. La stazione è buia, dormono in molti sul pavimento, l’odore è tremendo, e la paura mi prende allo stomaco. E’ la prima volta che mi allontano da Delhi. In treno il servizio è impeccabile, giornale, acqua imbottigliata, colazione abbondante, G. nota ridendo che il cameriere è efficientissimo. L’arrivo alla stazione di Agra è traumatico. Tutti gli arrivi, in India, da un aereo, da un autobus, da un treno, sono sconvolgenti. Sarà così anche a Jaipur, dopo sei ore di autobus senza aria condizionata. Persone che vogliono procurarti di tutto, dal taxi alla guida turistica all’albergo, mendicanti, sfruttatori, venditori. All’inizio ti sembra una violenza ingiustificata, una specie di aggressione. Poi ci fai l’abitudine, impari a dire di no e a non sentirti in colpa. Naeem ci carica su un enorme fuoristrada. Ci porterà in giro per tutta la giornata, fino al treno del ritorno a Delhi.

Il Taj Mahal è la cosa che vedremo per ultima, e poi ne capirò la ragione, mi spiega Naeem. E’ dolce e galante, e quando si gira indietro per parlare si rivolge solo a me, e mi chiama madam, sorridendomi. La strada per Fatehpur Sikri[5] è dissestata. Piove e il fango è dappertutto. Attraversiamo villaggi rurali, ed una campagna sterminata, indecifrabile. La città deserta è una specie di isola di tranquillità in questo mare caotico di gente e rumori. E’ deserta anche di turisti, oggi che piove, e comunica un senso di pace. Giriamo per ore, accompagnati da una guida sapiente, cerchiamo di ritrarre la bellezza solitaria e malinconica del palazzo imperiale attraverso l’obiettivo delle macchine fotografiche, ma è impossibile, una partita persa in partenza. Ma il dovere delle foto è imprescindibile. Non sarà utile ai miei ricordi e alla mia nostalgia, ma alle serate con gli amici, forse. Almeno, se non avrò abbastanza parole, avrò immagini da regalare. La guida ci porta anche in una moschea. La scalinata è altissima, e costellata di gente. Lui ci avverte che è difficile districarsi fra tutte queste persone, ma ormai io sono abituata a fare slalom, metto gli occhiali scuri e non mi fermo. Non è per indifferenza o altro, è proprio perché se ti fermi è finita, non vai più avanti. All’interno della moschea ci si toglie le scarpe, e qui è tutto bagnato di pioggia. La guida è premurosa, e mi dice di tenere i calzini e di camminare sulla passatoia. La stessa sensazione di pace, infinita. Non è come la grande moschea di Delhi, la Jama Masjid, che arriva a contenere 25.000 fedeli, e che ha la stessa anima di Delhi, perennemente affannata, senza pace, senza riposo. Da qui Delhi è lontana, molto di più dei duecento chilometri reali.

Non riesco a distaccarmi facilmente da questa città deserta, ma il desiderio di vedere il Taj Mahal è forte. G. è un buon compagno di viaggio, docile e risoluto, animato da un bisogno simile al mio di guardare, conoscere, andare oltre la superficie. Donne bellissime avvolte in sari colorati e sinuosi si fermano a farsi fotografare davanti a quello che G. chiama scherzosamente “il panettone”. Ci avviciniamo a tappe allo splendore bianco del Taj, passiamo mezzo pomeriggio seduti sul marmo caldo della spianata davanti alla grande tomba, e diciamo di sì a tutti quelli che ci chiedono di fotografarci. Diciamo scherzando che saremo in tutti i libri di fotografie degli indiani, e questo mi mette addosso una strana ansia. Cosa so di loro, e loro cosa sanno di me, se non che sono una straniera bionda e sorridente, che non parla l’inglese come gli altri italiani (come mi ha detto un elegante venditore di tappeti del Kashmir) e cammina lentamente, con la poca grazia che le rimane, per non disturbare tutta questa bellezza? Il Taj Mahal cambia sfumatura durante la giornata, ma il momento più bello è verso sera, quando il colore del cielo si fa più intenso, il caldo soffocante inizia a diventare più sopportabile, e la bellezza di quelle cupole bianche si fa struggente. Il Taj è lì, da secoli, dono del dolore di un re per la sua donna morta. La casa della sposa, il monumento all’amore, parole e definizioni si sprecano per questa enorme tomba bianca circondata da quattro alti minareti e sormontata dalla mezzaluna islamica, posta come un gioiello al centro di una città brutta, sporca e inquinata. Sembra sceso da un altro pianeta. E’ distante anche quando ti ci avvicini. Distante come l’amore, e irraggiungibile.

Leggi anche L’India di Paola (parte prima)

About Paola:

Napoletana, quarantenne per sbaglio, eterna ragazza per vocazione. Ha studiato Scienze Politiche e sognato una carriera internazionale, ha fatto tante esperienze di lavoro, anche all’estero, approfittandone per vedere un po’ il mondo. E’ progettista di interventi formativi e di azioni sociali, precaria come molti, in questa epoca incerta. Ama un sacco di cose, ed è curiosa come un gatto (animale prediletto, del resto!). La musica, la lettlettura, la scrittura, il web e le sue innumerevoli possibilità di comunicazione. Le persone, e le loro infinite storie. Il suo compagno. Il suo nipotino nuovo di zecca, bellissimo e riccioluto come lei (grazie sorella!). Viaggia in macchina, preferibilmente. Non ha la passione dell’aereo, ma ogni volta, superato il suo bel panico da decollo, prova un’ebbrezza di gioia, e di libertà. Il racconto sull’India è frutto di un ricordo ormai antico, dell’anno 2001, quando ha vissuto a New Delhi per tre caldissimi mesi, condotta lì da una borsa di studio dell’Istituto per il Commercio Estero. Ci ritornerà, un giorno, e sarà come tornare a casa…

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