Quella volta alla frontiera

Ho capito che vi fa piacere leggere le mie prove di racconto. E allora ecco qui il testo che ho prodotto come esercitazione sui dialoghi per il corso avanzato della Scuola del Viaggio. Dovevo raccontare l'incontro con uno straniero risolto attraverso il dialogo, così mi è tornato alla mente quest'episodio successo durante il viaggio nei Balcani di parecchie estati fa. Leggete, riflettete, commentate, ditemi se vi garba!

Siamo in viaggio da cinque giorni, diretti verso l’ultima capitale di questo tour, prima di tuffarci nelle acque freddissime e trasparenti dell’isola di Rab

Lubiana, Belgrado, quindi Sarajevo. Prima di partire ho stampato le mappe di tutte le strade che abbiamo in programma di percorrere. Non perché non ami lasciare qualcosa al caso, anzi, ma è la responsabilità di viaggiare con un bambino piccolo che mi porta a essere particolarmente apprensiva. Per di più, sono terrorizzata dal cirillico, che né io né il mio compagno conosciamo.

Sarà la nostra salvezza, la mappa di Viamichelin in doppio alfabeto: nell’interno della Serbia le indicazioni stradali sono solo in cirillico, a ogni bivio serve attenzione e prontezza. Man mano che ci si allontana da Belgrado le cittadine diventano villaggi, i marciapiedi scompaiono, le case si fanno più basse, le strade più dissestate. Carri trainati da cavalli si sostituiscono ai camioncini per il trasporto di merci. In due ore di viaggio siamo tornati indietro di settant’anni. La mappa mi dice che siamo prossimi alla frontiera. Eccola, dopo la curva appare un casotto con un uomo dentro. Rallentiamo. Preparo i documenti. L’uomo in divisa ci fa cenno di andare avanti. 

Poco più in là, un edificio gemello. Fuori, un uomo con una divisa diversa.

Ci accodiamo dietro a un’auto con targa serba. L'agente si muove con grande calma. Quando è il nostro turno, si affaccia dentro la macchina e domanda: 

<<Why are you here?>>. 

<<For tourism>>, risponde dopo un tempo che mi pare infinito il mio compagno, con tono imbarazzato. 

<<Medjugorje?>>

<<No, Sarajevo. Veniamo da Belgrado, prima eravamo a Lubiana>>

L’uomo guarda i nostri e documenti e scruta i nostri volti. Si sofferma sul bambino: è biondo con gli occhi chiari. Nessuno di noi è biondo con gli occhi chiari. 

<<E lui?>>

<<È nostro figlio>>

I documenti parlano chiaro. Le foto sono anche recenti.

Il gendarme chiama un collega. I passaporti passano nelle sue mani. Anche lui controlla volti e documenti.

<<Può aprire la bauliera?>>

Tic.

Osservo i due uomini dallo specchietto retrovisore. Tolgono un paio di zaini, spostano gli altri bagagli. No, non ci sono altri bimbi biondi, in bauliera, e noi siamo solo una famiglia di viaggiatori. 

Il secondo uomo si avvicina al finestrino aperto lato guidatore porgendo i nostri documenti.

<<Buon viaggio>>, ci augura in un italiano stentato, mentre il collega più giovane richiude la bauliera.

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